Empatia cognitiva: capire l’altro senza invaderlo.
Mettersi nei panni dell’altro (senza rubarglieli)
Quando diciamo “empatia”, ci viene subito in mente una scena molto umana: qualcuno che consola, qualcuno che ascolta, qualcuno che capisce al volo.
Ma l’empatia non è una sola. E non è sempre quella che pensiamo.
Soprattutto: non è sempre quella che serve.
La psicologia dello sviluppo ci racconta che esistono diversi tipi di empatia che si sviluppano nel tempo. La prima a comparire è l'empatia affettiva: quel contagio emotivo viscerale che ci fa piangere quando qualcuno piange, ridere quando ridono. Non è ancora una comprensione dell'altro: è un'eco interna.
Poi, intorno ai 4 anni, arriva qualcosa di più sofisticato: l’empatia cognitiva.
Non si tratta più solo di sentire ciò che l’altro sente. È comprendere che l’altro può pensare, volere, desiderare qualcosa di diverso da noi.
E accettarlo.
Qui non si tratta più solo di cuore, ma anche di cervello: entra in gioco la giunzione temporo-parietale, una piccola regione con un grande compito: farci uscire da noi stessi per entrare (senza invadere) nell’altro.
Ma per farlo davvero, serve un gesto tanto semplice quanto potente: spiegare.
Sì, perché per capire bisogna spiegare.
Tradurre in parole anche solo per sé quello che l’altro sta vivendo, sforzarsi di dargli una forma comprensibile, è uno dei modi più profondi per avvicinarsi davvero.
Quando proviamo a spiegare, ci mettiamo in ascolto. Quando spieghiamo, ci prendiamo la responsabilità di cercare un senso e nel farlo, iniziamo a vedere l’altro davvero.
Ora, tu dirai: tutto bello. E con i cani che c’entra?
C’entra eccome.
Perché è esattamente questo il passaggio che spesso manca nel nostro modo di aiutarli.
Siamo bravissimi a sentire “con” loro: ci si stringe il cuore se li vediamo spaventati, ci si accende un sorriso se ci sembrano felici. Proiettiamo emozioni, stati d’animo, parole su di loro, con una generosità emotiva che a volte sfiora il coloniale.
Eppure, per aiutare davvero un cane, non basta l’empatia affettiva.
Serve quella cognitiva. Serve riconoscere che lui è altro da noi. Che il suo modo di percepire, apprendere, relazionarsi con il mondo è filtrato da un cervello che non è il nostro.Che l’esperienza della paura, del piacere, dell’attaccamento, del rischio... non passa sempre dalle stesse strade che percorriamo noi.
L’empatia cognitiva è quella capacità difficile (e bellissima) di tenere il proprio posto, mentre si guarda l’altro nel suo.È quella che ci permette di dire: “Capisco cosa provo io, ma provo a immaginare cosa provi tu, con la tua storia, il tuo corpo, la tua biologia”.
Non è immedesimazione.
È differenziazione consapevole.
È empatia con confini, e per questo è più utile.
Quando pensiamo di aiutare un cane, ricordiamoci di questo: non serve che ci sciogliamo al primo sguardo tenero o che ci identifichiamo con lui fino a perderci. Serve sentire, ma anche conoscere. Serve imparare a leggere i suoi segnali, le sue emozioni, i suoi modi di adattarsi, stringere relazioni o chiedere aiuto.
Perché il pensiero empatico nasce dalla parola che cerca.
E ogni volta che proviamo a spiegare quello che vediamo invece di limitarci a sentirlo stiamo costruendo un ponte reale tra noi e l’altro.
Serve che ci spostiamo dal “io al tuo posto farei...” al “tu, con quello che sei, cosa stai vivendo?”
È un cambio di postura.
Più faticoso, forse, ma infinitamente più rispettoso.
E se l’empatia è un viaggio allora anche noi, adulti, professionisti, appassionati, educatori o semplici compagni di vita di un cane, possiamo allenarci a farlo meglio.
Un passo dopo l’altro.
Un cane dopo l’altro.
Un pensiero alla volta.