Turiste per caso.Pan, i cani del paese e un rifugio sacro
Riflessioni semiserie su cosa significa viaggiare con un cane immenso (e in calore) nei territori altrui
La prima vacanza con Pan fu in Molise. Una scelta dettata più dal cuore che dalla logistica e con un cane che non è solo un cane, ma un’entità che non si può contenere. Pan è così: ingovernabile, immensa, e, ovviamente, entrò in calore proprio durante quel viaggio.
Avevo fatto tutto per tempo, giuro. Lo striscio vaginale dal veterinario prima di partire, la rassicurazione che “non dovrebbe essere ancora il momento”, e invece eccola lì. Mia ha iniziato subita a marcarla stretta a cambiare sguardo, a entrare in controllo e tempesta ormonale prima ancora che potessi capirlo con strumenti più tecnici.
Ma oggi non voglio parlare di questo, né della convivenza forzata tra Pan e Mia, che fu una delle prime grandi prove della nostra esperienza itinerante. Anche se, ammettiamolo, vedere nascere quella parte del rapporto dove Mia è riuscita a passare da competizione a cura modulata dalla sua amica geniale, sarebbe un bel racconto. Lo tengo per un’altra volta.
Quello che vorrei raccontare è la volta in cui attirammo tutti i cani di un paesino vicino Campobasso: tutti!
Del paesino non ricordo più il nome (come spesso accade quando viaggi con l’attenzione divisa tra Google Maps e mi sono persa di kiovo), e stavamo semplicemente camminando. Un po’ per sgranchirci, un po’ per dare a Pan e Mia la possibilità di esplorare. Nel giro di pochi minuti, in virtù dell’odore irresistibile dell’estro o iniziarono ad accodarsi uno, due, tre cani e poi cinque, sette. Alcuni erano evidentemente cani di casa, altri liberi ma accuditi, altri ancora dei "chi lo sa".
In una manciata di strade, eravamo un corteo. Io, Rossella, Pan e Mia al centro, e dietro (e davanti, e di lato) un nugolo crescente di cani interessati, agitati, alcuni pacifici, altri meno. Una processione cinofila senza capo né coda.
L’unico rifugio disponibile fu una chiesa. Ebbene sì una chiesa vera, con la porta socchiusa e l’ombra fresca. Ci infilammo dentro e nessuno ci mandò via. Né il prete, né le signore intente a dire il rosario, né i paesani. Anzi, furono proprio alcuni di loro, gli umani intendo, ad aiutarci a trovare una via di uscita: chi chiamava il cane per nome, chi ci faceva segno con le mani, chi dava indicazioni su quale vicolo sarebbe rimasto vuoto per qualche minuto.
Con calma, riconoscenza e un po’ di goffaggine, riuscimmo a tornare al Berlingo.
Ci ripenso spesso, a quella scena. A quanto sia facile entrare, anche senza volerlo, anche avendo calcolato tutto in territori che non ci appartengono, con corpi animali che portano con sé odori, linguaggi e dinamiche che non possono essere ignorate. A quanto sia importante sapere dove siamo, non solo per noi, ma rispetto a chi c’è già.
Essere turisti non ci dà il diritto di pretendere che i luoghi si adattino ai nostri bisogni. Significa piuttosto imparare ad ascoltare ciò che quei luoghi ci stanno già dicendo attraverso le persone, certo, ma anche attraverso i cani che li abitano. Alcuni liberi, altri lasciati liberi, altri ancora liberi perché nessuno li ha mai voluti chiudere davvero.
Se ti stai chiedendo chi fossero quei cani, se c'è una cornice legale che li tutela, se esiste davvero il “cane di paese” in Italia, ne ho parlato in un approfondimento riservato agli abbonati:
👉 Cani liberi accuditi: legge, territorio, convivenza
https://marinagrossi.substack.com/p/cane-libero-accudito
Saperci ospiti, anche quando portiamo in giro un cane immenso, in calore, e dotato di un carisma che sposta le geografie locali, è forse la lezione più utile che quel viaggio mi ha lasciato.
E ogni volta che mi capita di sentire la frase “ma qui ci sono troppi cani”, penso a quella chiesa, a quel paese senza nome, e a un Berlingo che si allontana piano, mentre i cani si disperdono come onde sulla costa.